Martina


di azael
21 marzo 2013

Questa non è una poesia, è una nota a una poesia vera, una delle più belle di Guido Catalano, Grazie Martina che mi (qui il testo). E’ un omaggio quindi, un grazie, un dopo,  che è venuto su da un’idea di quest’omino qui, che ha sempre delle idee in testa. Qui tutto il carteggio. Prima andatevi a leggere la poesia, poi tornate qua.

In quel vuoto ci sta un sacco di bella roba.
C’è Martina che era scesa dal treno, qualche stazione prima,
e il suo moroso ha aspettato che scendesse, perché si vergognava di scriverle a spatascio.
C’è il moroso che la ringraziava, ma per quella cosa lì,
quella che per Martina era una sciocchezza
e che invece per lui no,
e allora ha lasciato perdere di scriverla, a metà.

C’è Martina che l’ha,
quando lui ormai non ci sperava più e allora lui s’è messo lì, a ringraziarla,
come un di più.
E sì che invece non è una roba da dover dare dei ringraziamenti,
c’è gente che la, che lo, tutti i giorni, in ogni tristissimo regionale Trenitalia,
e nessuno dà dei premi, o delle pacche sulle spalle, per questo.

C’è il suo moroso che, dopo aver rimesso nella tasca del giubbino il pennarello, ha riletto per qualche secondo quella cosa,
lì come uno taglio sul tabellone,
e ha pensato va là che testa di cazzo, innamorarsi in movimento.

C’è Martina che la mattina dopo è risalita a Chivasso e ha letto quella roba
e ha pensato chissà per chi è, e che vuol dire, e poi e passata oltre.

C’è il suo moroso, che moroso non è mai stato,
che ogni tanto ripensa a tutte le scritte lasciate in quello e in altri treni,
grazie Martina che mi, ti prego Martina dimmi che, va bene Martina ma non, fanculo Martina però.

C’è Martina che in fin dei conti è un treno pure lei, e tutt’intorno ha pareti, non ha muri, né alberi infiniti,
e le pareti si muovono veloci,
si appoggiano per 3 minuti alle stazioni e la gente ci appiccica due sguardi sconsolati di trasbordo.

Ci sono i pendolari che ancora guardano nel vuoto e per la tristezza spaventosa di aver sbagliato vuoto
hanno scambiato gli occhi con dei tappi zigrinati di acqua minerale.

Ci sono quei due seduti di fronte che quel vuoto l’hanno arredato e a loro,
santi e papi di un’altra chiesa, sta bene così.

C’è lui che il resto l’ha scritto su un foglietto e l’ha buttato vicino alla tazza del cesso,
e chi l’ha raccolto ancora si chiede dov’è-com’è che è esplosa tutta quella baraonda di antigienica felicità,
e perché.

C’è Martina che il finale ce l’ha messo a baci piccoli e a occhi di contentezza,
come le poesie che finiscono col trucco.

C’è Martina che invece non ne sa niente, e lui che avrebbe voluto dirglielo per bene,
con un deragliamento nucleare di vagoni,
ma se la frase la finisci poi dopo è solo letteratura.

E la letteratura è per il dopo, quando il treno arriva da qualche parte in Brianza e il concerto dei nervi del corpo, come per pudore,
smette di.

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